Pubblico questo piccolo ricordo di chi è andato e ha visto. Lo pubblico così come è giunto a me, scritto di getto quasi a voler fermare un momento della vita che cambierà la percezione della vita stessa per sempre. Esperienze vissute. Il dolore dell’uomo per l’uomo che può essere più vivo di qualsiasi altro dolore.

A Nairobi, la capitale del Kenya, a 1600 m sul livello del mare, clima ottimo, piante altissime, bouganville dai colori smaglianti, strade larghe, traffico intenso, vie affollate, negozi, banche, chiese, hotels… incontriamo Carlo Aldrighetti, volontario di Verona della ACCRI . Ci accompagna dove vive e lavora
Andiamo verso la periferia, i palazzi restano indietro. La strada ora è sterrata e tutta buche. Ci vengono incontro case basse in blocchi grigi di cemento. Bimbi, donne, uomini dal passo svelto. Poi anche le case restano indietro. La strada si stringe, in terra una minutaglia di pezzetti di stoffa a colori e foglie di mais che calpestate stanno mescolandosi alla polvere. Ai lati piccole baracche di legno una vicino all’altra e bancarelle, ora vuote, fatte di pali e brandelli di fogli di nylon che al mattino mostrano poche cose offerte in vendita, soprattutto frutta e mais. I bimbi si staccano dalle baracche e corrono da Carlo. Gli prendono la mano, sorridono alzando verso di lui occhi neri brillanti. Quei volti ci fissano sorridendo, manine bianche e nere si insinuano nelle nostre e non ci lasciano, i piedini nudi ci seguono. Arriviamo vicino ad un lago dove si specchia il cielo azzurro. Nessuno si sta bagnando in esso ed una rete con filo spinato lo cinge dalla parte dello slum (baraccopoli). Carlo ci spiega:” E’ la fogna di Nairobi. Lo chiamano il lago dei suicidi. I corpi non vengono ritrovati. Restano lì”
Davanti a noi l’azzurro diventa grigio e una scura nube si espande su Korogocho, slum dove vivono più di centomila persone. Si sente il puzzo.
Carlo si infila in uno stretto passaggio tra due casette, 30 cm di terra e di mezzo un rigagnolo nero di acqua putrida che serpeggia attorno alle capanne. Qualche gallina, qualche capra. Siamo davanti a una porta in lamiera su cui a colori c’è disegnata una croce e una scritta “Karibu” (benvenuti). E la casa di padre Alex. Carlo, Simonetta, Maurizia e Michela (un padre e 4 giovani). Vivono con la gente di Korogocho. Padre Alex, comboniano, è qui da anni, i volontari ACCRI da alcuni mesi.

Entriamo nel cortiletto e ci sediamo davanti alla casetta in terra legno e paglia. Ci ricorda le celle dei monaci del Monastero di Camaldoli. L’odore che impregna l’aria il caldo equatoriale sono la differenza fisica tra i due luoghi.
Bussano alla porta. Chiedono di padre Alex. Carlo parla a lungo con un giovane. Poi un altro.
Arriva Maurizia dall’ incontro con le maestre. Ha dato loro come compito per casa: Cosa vi aspettate da Carlo e Maurizia?
Giovanni scherza: non si danno compiti per la domenica.
Usciamo. Ecco padre Alex. Davanti alla sua porta c’è un uomo per terra: dorme coperto con una stuoia da una mano pietosa. Una donna con il suo bimbo in braccio dice qualcosa in kiswahili a Padre Alex. Lui si china, solleva la stuoia, avvicina il suo volto a quel viso. ” Pombe” sussurra. È un miscuglio di alcol non raffinato col quale i poveri si ubriacano la birra costa troppo.

Rientriamo e subito ricomincia il bussare alla porta. Padre Alex si alza
” Karibu sana (benvenuto)”. Una donna ha un problema. Va via sorridendo
Cosa si aspetta la gente di Korogocho da noi, noi che dall’Italia veniamo, passiamo? Noi torneremo a casa fra giorni.
Carlo e le volontarie fra due o tre anni
Padre Alex resterà ancora qui.
La discarica il puzzo la miseria la malattia la fame saranno fino a quando?
Carlo ci dice che quando dopo un po’ conosci la gente resti annientato dai problemi che vive più che dalla situazione ambientale.
Non sai cosa dire a questa gente senza lavoro malata affamata a volte senza nessuno di famiglia ed emarginata da tutti lasciata vivere qui dal governo perché Korogocho non è un luogo appetibile per nessuno.
Cosa si aspettano questi fratelli da noi che siamo stati fortunati?
Qual è il progetto di Dio su di loro? Qualcosa si può fare?
Intanto qualcosa è cambiato per sempre dentro di noi
Ricordiamo un passo di Isaia (42,1- 4): “Finalmente si faccia promotore della Giustizia senza paura e senza compromessi fino a quando la terra non sia Patria della Giustizia e ogni divisione non sia ricomposta”.
Nairobi 1997
Oggi, nel 2019, a distanza di ventidue anni da quel viaggio, ci chiediamo “ Cosa abbiamo fatto per quei bambini?”
G.G.Motta
Alcune notizie: Korogocho è una lingua di terra stretta tra il Mathare River ed il Nairobi River, due fiumi neri e pieni di rifiuti e un enorme faro che tenta di illuminarla, “regalo” del governo o delle nazioni unite per ridurre il pericolo della criminalità notturna.
Korogocho è una somma di baracche senza interruzione di continuità che si affacciano sulla discarica della città: una discarica chiusa da dieci anni, ma che ancora riceve tutti i rifiuti urbani, visto che il governo non ha ancora definito una sede alternativa, una montagna di rifiuti alta almeno un centinaio di metri e lunga almeno un chilometro su cui la gente lavora, cammina, vive.
L’enorme montagna di rifiuti che domina il paesaggio e sovrasta lo slum è la discarica di Dandora, la più grande area per la raccolta di rifiuti della capitale. Raccoglie i rifiuti di 3,5 milioni di persone.
Il nome “Korogocho”, in dialetto kikuyu, significa “confusione, caos”, ma non è questo che salta all’occhio. Si percepisce prima la sporcizia. I piedi non calpestano il terreno ma un massiccio strato di immondizia. Dal terreno spuntano oggetti di ogni tipo, brandelli di vestiti, carta, legno e plastica…. tanta plastica.
Sembra che Korogocho non sia sorta accanto ad una discarica ma sia stata costruita sui rifiuti. L’odore dell’immondizia regna sull’intera area, ci si sente assuefatti. Gli altri sensi vengono completamente annientati. Si alzano nell’aria stormi di uccellacci: sono i Marabù, spazzini quotidiani del luogo.
All’interno della discarica lavorano 10.000 persone. Bambini, donne e uomini alla ricerca di cibo, di oggetti, di sopravvivenza. Quella che per noi è solo spazzatura per loro rappresenta l’unica ricchezza. Intere giornate sotto al sole, mentre i rifiuti bruciano e l’aria si fa irrespirabile. Intere giornate sotto la pioggia, su un terreno di plastica scivoloso e tagliente.
Gli uomini caricano sulle spalle enormi sacchi carichi di ogni tipo di oggetti, le donne cercano cibo, indumenti, bottiglie: tutto ciò che è possibile rivendere o portare a casa. I bambini, il fiume di bambini che affolla la discarica, cercano di contribuire alla sopravvivenza della famiglia, o semplicemente alla propria sopravvivenza quotidiana.
Tutti setacciano la spazzatura, a mani nude o con gancetti di ferro. Si può guadagnare tra i 50 e 500 scellini al giorno: da 40 centesimi di euro a poco più di quattro euro. Il business dei rifiuti è estremamente rischioso per la salute, ma trascorrere la giornata alla ricerca di oggetti in una fumosa montagna di rifiuti è per tanti uomini e donne l’unica via per la sopravvivenza.